Colgo innanzitutto l’occasione per complimentarmi per la sua nomina ad Assessore ai Servizi Sociali: una donna è sicuramente il miglior investimento in sensibilità che una qualsiasi giunta produrre a fronte di un intenso impegno programmatico. La presenza straniera è un dato di fatto, una realtà esistente, indipendentemente dalla sua composizione o dal suo numero e dalla sua percezione. L'integrazione è quindi una necessità, che si impone sia alla popolazione italiana sia a quella straniera, e che presuppone da una parte la volontà di accogliere da parte di chi riceve e dall’altra la volontà di introdursi nella nuova società da parte di chi arriva. La convivenza, la comprensione tra culture diverse è un presupposto indispensabile per lo sviluppo sociale, culturale e anche economico della società. Ma quando e come si “crea” l’integrazione? Quando l’immigrato (regolare) incontra, come un qualsiasi cittadino residente di una comunità, i servizi alla persona e, all’opposto, quando gli stessi servizi manifestano una forza tale da impegnarsi con coraggio e generosità nel suo stesso campo. L’incontro con la speranza è sempre più forte di ogni convinzione ed appartenenza politica perché crea vicinanza ed integrazione. I servizi , più che con i singoli, sono chiamati a collaborare intensamente con la famiglia nella definizione e nell’attivazione del processo di aiuto. La famiglia è infatti il nucleo primario in cui l’individuo trova risorse materiali ed affettive per crescere in modo sano ed equilibrato. Ma la famiglia non è sempre quel nucleo stabile nella sua immobilità, senza tensioni. E per questo motivo la famiglia può subire trasformazioni che incidono, poi negativamente, su tutti i membri della stessa. Il concetto di crisi, è strettamente legato alla percezione di uno stato di disagio: non ho naturalmente alcuna competenza al riguardo ma, come espressione di un comunità (prima ancora di sottolinearne il ruolo di mera appartenenza politica) desidero (come credo lo pretenda lei quale rappresentante istituzionale) che le condizioni concrete di ogni suo membro siano dignitose. In questa prospettiva, già la stessa comunicazione di un disagio da parte di un qualsiasi cittadino, anche extracomunitario, diventa una percezione indiretta dello stesso, e, come tale, equivale ad una presa di coscienza, legata all’assunzione di responsabilità (la politica non c’entra), al fine di mettere in moto una serie di comportamenti, atteggiamenti o meccanismi che possano favorevolmente consentire al sistema stesso di avvicinarsi al problema. Vedo di descriverle in breve la questione, sulla quale potrà esperire le sue doverose valutazioni e considerazioni. Il Sig. Reaz (tel.********) mi ha riferito il caso di una donna extracomunitaria (S.A.)di 23 anni residente a Jesolo, sposata con un figlio di 14 mesi. Il marito di 33 anni, è morto il 22 settembre c.a. (ha lavorato per circa 8 anni a Jesolo). La donna sembra caduta in una sorta di disagio psichico dovuto probabilmente alla morte del marito. E’ evidente che, un po’ per la situazione in sé un po’ forse per il diverso contesto culturale, la manifestazione esterna del disagio avvenga per interposta persona (il Sig. Reaz). Come, d’altra parte, il “Caso” possa essere l’espressione di una qualsiasi altra famiglia residente. Per capire concretamente, ricorro al caso citato (per il quale, i auguro, si dispongano effettivamente, degli accertamenti. Se SA non è stata in grado di definire lo stato di disagio trasformandolo in una richiesta d’aiuto è evidente che toccherà al sistema (all’assistente sociale) cercare di “centrare” la questione allo scopo di definirne gli interventi. E, se è vero che ogni intervento va “letto” nell’ottica relazionale, è altrettanto evidente che la soluzione poggia sull’incastro di variabili non sempre connesse tra loro. La valutazione pertanto non riguarda il nucleo famiglia composto da madre e figlio ma, al contrario il sistema all’interno del quale si realizza il disagio. tentativi di connettere e rendere coerenti e dotate di senso le relazioni e i comportamenti delle persone che partecipano al processo. L’intervento del Servizio sociale può risolversi in un Assistenza domiciliare e/o in un Assistenza economica (un contributo economico, incisivo e per brevi periodi, che consiste in un aiuto alle famiglie in difficoltà per evitare un peggioramento della situazione)? E’ sufficiente un sostegno con affido mamma/bambino?Oppure la sofferenza psichica della donna (la discussione è sempre “in presunzione” di fatti non accertati) è tale che può incidere su tutti gli aspetti del vivere, compreso quello relazionale con il bambino? E’ necessario ricorrere alla potestà come istituto di protezione per il minore? Se un qualsiasi operatore sociale si limitasse ad accogliere il disagio solo sul fronte della valutazione,senz’altro logica, di chi subisce il disagio, vorrà dire che tenderà a rispondere alla domanda di aiuto specifica, senza un quadro esplicativo della situazione, limitando notevolmente il suo campo di azione. Probabilmente, in questo caso, giungerà alle stesse conclusioni cui altri (persone che vivono in prossimità della coppia madre/figlio) sono già giunte , e vedrà, perciò, le stesse alternative soluzioni di quest’ultimo. L’intervento sarà quindi, centrato a rispondere alla domanda concreta (domanda apparente), senza entrare nel cuore del vero disagio (domanda reale).Questo per farle capire quanto sia complessa l’attività dei servizi sociali (avrà modo di approfondire sicuramente tali questioni) e, come, la stessa non possa essere trasformata in interventi “personalizzabili” senza una fase di intensa riproposizione progettuale, a cui lei, nel suo mandato, è chiamata a gestire.
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